Un’intervista con Tim Wells: ranting poetry, sottoculture e un po’ di horror
Il ranter londinese parla degli stili skinhead e suedehead, delle proprie influenze culturali, delle attività presenti e passate e del romanzo pulp horror “Moonstomp”
🇬🇧 Non-Italian speakers take note! This interview with Tim Wells is also available in English language: An interview with Tim Wells: ranting poetry, subcultures and a bit of horror.
Tim Wells
Il nome di Tim Wells è associato a molti argomenti di nostro interesse: ranting poetry, fanzine, deejaying reggae e soul, sottoculture skinhead e suedehead – è diventato uno skin nei tardi anni ’70 – ed altro ancora.
La sua poesia è attenta all’identità di classe, ed è inoltre influenzata dai suoi gusti musicali e dalle sue preferenze letterarie; si veda, ad esempio, il suo utilizzo occasionale del nadsat, lo slang fittizio di Arancia Meccanica.
La bibliografia di Tim Wells – mai tradotta in italiano – comprende A Man Can Be A Drunk Sometimes But A Drunk Can’t Be A Man (2001), If You Can Read This, You’re Too Close (2003), Boys’ Night Out In The Afternoon (2005), Rougher Yet (2009), Keep The Faith (2013), Mary Millington (2014), Everything Crash (2015) e il romanzo Moonstomp (2019), che ha attirato la nostra attenzione per via della fusione di elementi horror e sottoculturali.
Nel corso dell’intervista con Tim Wells c’è stata una piccola incomprensione, nello specifico quando abbiamo fatto uso del termine “poesia Oi!”, talvolta utilizzato – almeno in Italia – per indicare il lavoro di quei ranter che, come Garry Johnson, trattano tematiche comuni alla musica Oi! (appartenenza stilistica e di classe, vita di strada, ecc.).
Non sappiamo come si sia diffusa questa definizione nel nostro paese (forse tramite qualche vecchia skinzine?), tuttavia scoprire che viene utilizzata raramente fuori dai confini nazionali è stata una piccola sorpresa.
Per ora abbiamo detto abbastanza. Sentiamo cosa ha da dire Tim Wells sulla propria storia, sui suoi interessi culturali e sulle sue attività. Buona lettura!
L’intervista
Parlaci del tuo coinvolgimento nella scena. Erano gli anni del revival skinhead, del new punk e della 2 Tone, e più tardi arrivarono l’Oi! e la ranting poetry. Eri attratto da tutti gli aspetti del culto skinhead?
Ascoltavo il reggae e mi piaceva lo stile skinhead/suedehead. Mi piaceva il fatto che i ragazzi della classe operaia vestissero meglio dei ragazzi posh e che questo spaventasse i ricchi [l’aggettivo “posh” è traducibile, in questo caso, come “proprio delle classi dominanti, chic, snob” – NdR].
Ascoltavo molto dub – le etichette discografiche di Joe Gibbs erano le mie preferite – e anche un sacco di dancehall pubblicata dalla Greensleeves. Ho visto dal vivo numerosi gruppi reggae e molti sound system.
Ho assistito a un bel po’ di concerti punk: andavamo a vedere tutti i tipi di band e mi piacevano gruppi punk come i Ruts. Vidi la maggior parte dei gruppi Oi!, alcuni validi e altri orribili, e mi resi conto di come l’Oi! si stesse cacciando piuttosto rapidamente in un vicolo cieco.
La musica reggae è paragonabile a un giornale, soprattutto quando viene suonata in un sound system, dove il DJ, al microfono, parla di quello che succede. Mi piaceva quell’immediatezza, che poi abbiamo ripreso nella ranting poetry. Molte poesie erano d’impatto, ma avevano una data di scadenza ben precisa.
Ho partecipato a delle serate poetiche con Seething Wells, John Cooper Clarke, Attila the Stockbroker, Ginger John, Porky the Poet, Ben Zephaniah e altri ancora. Mi piacevano l’immediatezza e la schiettezza di quelle serate, e mi piacciono ancora oggi.
Quando hai iniziato a fare poesia Oi? Consideri questo termine un sinonimo di “poesia punk” e di “ranting poetry”?
Non so cosa intendiate precisamente per “poesia Oi!”. Tendo ad evitare le etichette, credo che vengano usate per sminuire le persone. A volte mi chiamano “poeta punk”, ma in genere si tratta di qualcuno posh che cerca di ricordarmi che io non lo sono.
Mi impegno molto nei miei lavori e ho scritto delle poesie valide. Questo è sufficiente a rendermi un poeta.
Quando si parla di ranting poetry, i primi nomi che ci vengono in mente sono quelli di Garry Johnson e di Attila the Stockbroker. Ci sono altri poeti di cui vuoi parlare?
Mi esibisco ancora con Garry e Attila. Seguivo sia Linton Kwesi Johnson che Michael Smith, e faccio ancora delle serate con Linton, mentre Mikey, purtroppo, è stato ucciso nel 1983. Lo lapidarono perché aveva criticato un politico.
I loro forti accenti giamaicani avevano una grossa rilevanza nel loro lavoro e ci suggerivano che anche le nostre voci working class erano importanti.
La composizione di Linton “Sonny’s Lettah” era una di quelle che tutti i miei amici conoscevano, e sapevamo bene di cosa parlava. La poesia ci ha uniti, così come la musica reggae.
Altri poeti che vale la pena di conoscere sono Emily Harrison, Chip Hamer, Hannah Lowe, Salena Godden e i Poetry on the Picket Line. Come dice il nome stesso, la crew si esibisce in occasione di alcune manifestazioni.
I giovani poeti hanno ascoltato e letto poesie come “Young Conservatives” e “Guvnor’s Man”, e le hanno capite alla perfezione. Ma soprattutto, si trattava della dimostrazione che esisteva una voce della classe operaia, e ciò porta a domandarci come mai, oggi, questa non venga più ascoltata.
Una cosa importante per il reggae, per il punk e per le fanzine era il fatto di fare le cose per se stessi. Non mi sono mai aspettato niente dal sistema: fare le cose da soli è una minaccia per il sistema stesso e ci rende più forti.
Cosa ci dici del tuo impegno attuale nella ranting poetry? C’è ancora un interesse per questa scena? Viene seguita anche da ragazzi coinvolti nelle sottoculture?
A partire da metà anni ’80, non ci sono più stati veri e propri nuovi ranter. Qualche anno fa, ho organizzato una serie di serate intitolata “Stand Up And Spit”, con molti vecchi ranter e qualche giovane poeta.
Volevo collegare le lotte che portavamo avanti negli anni ’80 con quello che sta accadendo oggi: è sempre la stessa battaglia. Lo spoken word è in ottima salute, ma non ha ancora deciso qual è il suo ruolo.
Ho avviato il blog Stand Up And Spit visto che tutte le nostre attività si erano svolte nell’era pre-Internet. Nel blog ci sono un sacco di poesie, di musica e di politica, tutte cose che mostrano ciò che abbiamo fatto e in quale contesto è accaduto. Ci sono anche molte poesie working class da diverse parti del mondo.
Alcuni skinhead e punk vengono alle serate, e sono per lo più i benvenuti. Non mi metto a scrivere “poesie skinhead”, ma visto il legame tra musica, stile e una grossa parte della mia vita, si tratta comunque di qualcosa di cui scrivo spesso. Cerco di essere onesto e di fare qualcosa che possa arricchire tutti, non solo chi indossa brogue e Brutus.
Alcuni dei miei più grandi sostenitori sono skinhead, sia della mia età che più giovani: Hold tight Polly, Peyvand, Aisling, Maor, Matthew, Rooby, Zuri e Jenny.
Ci parleresti della tua attività di romanziere? Sei stato influenzato dalla letteratura pulp? Ci riferiamo soprattutto agli autori che hanno dedicato qualche attenzione alle sottoculture, come Richard Allen e, più tardi, Stewart Home.
Moonstomp è il mio primo romanzo. John Mitchinson della Unbound è, come me, un grande fan dei romanzi pulp degli anni ’70 dedicati ai culti giovanili, pubblicati dalla New English Library e da altre case editrici.
Una volta stavamo facendo due chiacchiere a proposito dell’ottima autobiografia di Dave Hills degli Slade pubblicata dalla Unbound, e finimmo per parlare della New English Library.
Gli dissi che avevo intenzione di scrivere un libro su uno skinhead lupo mannaro a cui crescono le basette quando c’è la luna piena, e John mi rispose immediatamente che intendeva pubblicare il romanzo. Gli dissi che stavo scherzando – il che era vero – e quindi mi chiese di farlo sul serio. Non sono tipo da guardare in bocca a caval donato, perciò stringemmo subito un accordo.
Quando andavo a scuola leggevo un sacco di pubblicazioni della New English Library. C’erano altri ragazzi della mia generazione che leggevano Suedehead, Chopper, e tutti gli altri libri sugli skinhead e sugli Hells Angels. Ho una bella collezione di quei romanzi, e i miei preferiti sono Agro e Albion! Albion!
Ci emozionammo anche per i libri di Sven Hassel. Gli altri ragazzi leggevano romanzi di fantascienza, e trovammo un punto d’incontro nei volumi della serie Pan Book of Horror Stories, che erano collezioni di brevi racconti horror con copertine macabre.
In Moonstomp ci sono citazioni di vecchie storie di fantasmi. Si tratta di un romanzo pulp, ma il fatto che io abbia la testa rasata non significa che non legga. Io e i miei scritti abbiamo seguito un percorso culturale.
Anche I Topi di James Herbert era popolare. Era di Londra Est, e pure lui ha influenzato Moonstomp. Si trattava di un ragazzo della classe operaia che, come i ranter, cercava di farcela. Gente come noi ne sapeva qualcosa.
Conosco Stewart Home da tanto tempo. I suoi scritti non mi hanno influenzato, ma lui è stato molto incoraggiante. È diventato skinhead soprattutto perché ha i capelli molto ricci.
Il tuo interesse per la Hammer Film Productions è evidente. Ti va di parlare più dettagliatamente della tua passione per l’horror?
Quando ero ragazzo, la maggior parte dei nostri week-end erano dedicati alla musica reggae e ai film horror e di arti marziali. Queste cose si abbinavano molto bene.
Amavo i film della Hammer. Ralph Bates indossava molti vestiti a cui noi, come suedehead, prestavamo attenzione. L’horror inglese è piuttosto particolare per il fatto che la minaccia proviene dall’interno, è qualcosa già presente. Invece, negli horror americani – ad esempio negli slasher – la minaccia viene dall’esterno.
In genere, i racconti horror validi – come quelli di M.R. James, Robert Aickman e Vernon Lee – sono brevi e scritti con rigore. Come poeta, mi sento attratto da questo aspetto. Mi piace la distillazione nel lavoro: il whisky, non la birra.
Secondo noi, l’incontro tra horror e sottoculture è molto affascinante. Tuttavia, i metallari e i punk appaiono in un buon numero di film, mentre ci sono degli skinhead solo nel recente Green Room (anche se in realtà si tratta di bonehead nazisti), oppure in qualche scena isolata, come in Venerdì 13 parte VIII – Incubo a Manhattan. Questa è una delle ragioni per cui siamo interessati al tuo romanzo…
Quei film sono troppo recenti per i miei gusti. Ho visto Green Room: Imogen Poots recita bene, ma non erano tutti punk? Quei film sono troppo moderni.
Preferisco gli horror in bianco e nero della Universal, come Il Segreto del Tibet. In quei film ci sono dell’umorismo e delle speculazioni filosofiche che danno loro una certa profondità. Da ragazzo mi piacevano 1972: Dracula Colpisce Ancora! e i film a episodi della Amicus. Ingrid Pitt mi ha accompagnato nel corso della prima adolescenza.
Dall’altra parte dell’oceano, Romero (di cui mi è piaciuto molto Wampyr), Carpenter e Cronenberg hanno fatto film che avevano veramente qualcosa da dire.
Tornando al libro, inizialmente avevo cercato di imitare Suedehead di Richard Allen, ma ho cambiato idea piuttosto in fretta e ci ho messo del mio aggiungendo un lupo mannaro. Il racconto è ambientato nel 1979, e ci sono molte informazioni sull’abbigliamento e sui concerti. Si tratta di notizie accurate, il che non capita spesso con i libri dedicati agli skinhead.
Qua in Gran Bretagna le reti televisive trasmettevano ottimi horror; la serie Racconti del Brivido della Hammer è una delle preferite dalla gente della mia età. Rimanevamo svegli fino a tardi per i superbi film horror e di fantascienza che trasmettevano in televisione.
Nei film degli anni ’70 la rappresentazione della “gente comune” è passata dalla descrizione umoristica a quella puntuale. Angela Pleasence ha interpretato dei ruoli agghiaccianti in cui fa la parte della “persona ordinaria”. Mi vengono in mente gli horror degli anni ’60 e ’70 in cui il male fa parte del quotidiano, come nella realtà. A proposito, oggi Trump fa il presidente.
Cosa pensi dell’horror italiano? Quali sono i tuoi registi preferiti?
Suspiria è un bel film, molto conosciuto. Dario Argento ha sempre avuto un rapporto un po’ artistoide con l’horror.
Ci piacevano anche molti cannibal movie: Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato lo abbiamo guardato diverse volte, ma personalmente preferisco Ultimo Mondo Cannibale. Per qualche motivo esiste una certa quantità di cannibal movie realizzati da registi italiani.
Non so molto dell’horror italiano successivo ai primi anni ’80.
Cosa puoi dirci delle tue attività come DJ e curatore di fanzine?
Faccio un po’ di deejaying sia nel pub locale che altrove, in occasione di qualche serata. Di solito metto un misto di reggae e punk, più o meno del periodo 1975-80. Metto anche ska, rocksteady e soul, e faccio pure DJ set misti.
Sono stato coinvolto in un certo numero di fanzine, e infatti nel blog c’è molto materiale di questo genere. Scrivevo regolarmente per Zoot!, una fanzine ska che ha contribuito a riportare gli skinhead ad essere uno stile. Ho curato una fanzine poetica, Rising, per venticinque anni. Compro ancora delle fanzine quando capita.
Vorremmo saperne di più sul blog Stand Up And Spit, soprattutto per quanto riguarda l’abbondante materiale d’archivio pubblicato.
Come dicevo, lo scopo del blog è quello di descrivere la storia della ranting poetry e il contesto in cui si è sviluppata. Ecco perché c’è spazio anche per la musica e per la politica, era tutto collegato.
Ci sono molte poesie della classe operaia sul blog, mi piace fare questo tipo di ricerca. Esamino molti quotidiani e riviste dell’epoca, e così facendo leggo un sacco di notizie storiche.
Una delle cose buone dell’Oi! fu proprio il fatto di aver rappresentato la voce della classe operaia.
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