Le origini del termine “bonehead”
La parola “bonehead”, comunemente usata per designare gli skinhead white power, fu in origine impiegata per denigrare gli skin privi di stile
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Il revival skinhead
Agli inizi degli anni ’70, l’era skinhead original era ormai tramontata. Molti ragazzi erano diventati boot boy o suedehead: entrambi questi culti erano di derivazione skinhead, ma se il primo era largamente incentrato sulla vita da stadio, il secondo rappresentava per certi versi un ritorno alle origini mod del culto.
Secondo alcuni, intorno alla metà del decennio gli skinhead erano ormai un ricordo del passato. In realtà, la situazione cambiava a seconda della zona di riferimento: se nel Sud dell’Inghilterra il numero di teste rasate era in effetti ridotto ai minimi storici, nel Nord i sopravvissuti trovarono un nuovo punto di riferimento nella scena northern soul, anche questa di derivazione mod.
Sebbene molti sostengano che il revival skinhead degli anni ’70 abbia preso piede soltanto in seguito all’esplosione del punk rock, esistono in realtà numerose testimonianze che parlano di un ritorno della sottocultura già a partire dal 1976, indipendentemente dalla nascita del punk: lo scrittore skinhead di Glasgow, George Marshall, presentò diverse di queste dichiarazioni nei suoi libri Spirit of ’69 e Skinhead Nation (entrambi disponibili presso il nostro negozio online).
D’altro canto, il revival delle teste rasate era già stato evocato dal cantante reggae Judge Dread nella splendida Bring Back the Skins (1976).
Almeno una parte dei “nuovi” skin era già stata skinhead in epoca original, ma poi aveva abbandonato lo stile, oppure aveva adottato quello suedehead. Quando iniziò il revival, il look prevalente tra le teste rasate era dunque fedele a quello delle origini, anche nel caso in cui venissero prese come punto di riferimento formazioni della scena punk rock: basta guardare le fotografie della Sham Army (i fan degli Sham 69) per rendersi conto di come le giacche Harrington, le camicie button down ed altri capi d’abbigliamento tradizionali la facessero ancora da padroni.
Nel 1979, nel corso del revival ska favorito dalla nascita dell’etichetta 2 Tone, molti skinhead continuarono a ostentare un abbigliamento elegante, ed erano talvolta indistinguibili dai mod e dai rude boy dello stesso periodo.
Tuttavia, nel tempo, aderirono alla sottocultura numerosi ex-punk, che spesso riprendevano solo gli elementi più duri dello stile, estremizzandoli: capelli cortissimi (talvolta rasati a zero), jeans molto attillati, scarponi che andavano oltre i canonici 8 o 10 buchi e – in molti casi – ostentazione della Union Jack erano soltanto alcune delle caratteristiche più evidenti.
Le nuove teste rasate erano talvolta dette “skunk” – crasi tra “skin” e “punk” – anche se, più frequentemente, lo stesso termine designava pure i gruppi punk rock e Oi! in cui erano presenti componenti sia punk che skinhead, come gli Infa Riot di Londra e i Blitz di New Mills, appartenenti all’ondata UK 82.
Skinhead e bonehead
Tornando ai nuovi skin, non era solo il loro aspetto a disgustare i tradizionalisti, ma anche la violenza indiscriminata e l’abitudine di sniffare la colla, così come altri atteggiamenti che venivano ricondotti più al punk che allo stile skinhead delle origini.
Non ci volle molto, quindi, perché questi “punk rasati” iniziassero ad essere chiamati “bonehead” – letteralmente “imbecilli” – da chi invece si rifaceva al look e alla musica degli esordi. Si noti, tuttavia, che la contrapposizione tra i due gruppi non era totale, visto che tra queste tendenze non mancavano punti di contatto e sfumature.
In realtà, secondo alcune testimonianze, il termine “bonehead” era in uso già nel 1970, almeno nella zona di Manchester, e veniva utilizzato per schernire gli skinhead che portavano i capelli troppo corti – implicandone così una mancanza di stile – visto che regolavano la macchina tagliacapelli sul taglio 1, mentre il taglio 2 era considerato la lunghezza minima e il 3 costituiva spesso la norma.
Come è risaputo, alla fine degli anni ’70 le organizzazioni di estrema destra – il British Movement e soprattutto il National Front – riuscirono con successo a infiltrarsi nel mondo delle sottoculture e, in particolare, in quella skinhead, principalmente (ma non esclusivamente) nella variante skunk.
L’atteggiamento di chi aveva vissuto l’epoca original è ben riassunto dalla testimonianza di Paul Thompson:
Mi limitai a pensare: «Prima le cose non stavano esattamente così, sia per quanto riguarda l’abbigliamento che per quanto attiene all’attitudine».
Mi parvero belligeranti ex-punk dalla testa rasata che entrarono alla grande nel National Front. Si limitarono a prendere una parte degli aspetti più duri del nostro look e se ne appropriarono. Sentii che c’era una completa disconnessione.
L’ingresso della politica di estrema destra nella scena causò diverse reazioni: a fronte dell’indifferenza di alcuni, altri evidenziarono la loro politicizzazione a sinistra – ad esempio coniando il termine “redskin” (“red skinhead”) – e altri ancora tentarono un percorso di recupero e di valorizzazione della sottocultura original.
Tra questi vi furono, nei primi anni ’80, i redattori della skinzine Hard As Nails, che si rivolgeva agli skinhead sussed (cioè consapevoli della propria storia, e quindi curati nello stile) e prendeva nettamente le distanze dai nazi.
In Scozia, negli anni ’80, fu attiva la crew Glasgow Spy Kids, a cui apparteneva pure George Marshall. Un componente del gruppo, Ewan Kelly, intorno alla metà del decennio inventò il motto “spirit of ’69“, da cui Marshall prese ispirazione per il proprio libro.
Tra le attività degli skin di Glasgow – che avevano formato il raggruppamento in seguito alla crescita dei bonehead white power nella loro città – c’era la pubblicazione di una fanzine, Spy Kids, prodotta a partire dal 1986.
Nel numero 2 della skinzine, uscito nel 1987, apparve una vignetta di Kelly, intitolata “Bone’eads – How to Recognise One” (“I bonehead – Come riconoscerli”):
L’illustrazione riproduceva un po’ tutti gli stereotipi riconducibili ai bonehead: i tatuaggi facciali, l’aspetto eccessivamente duro e poco curato, il vizio della colla, l’adesione ai movimenti di estrema destra.
L’ultima didascalia – «Un tipico giorno di divertimento dei bonehead» – rimanda a un ritaglio di giornale:
La polizia, ieri, ha effettuato 90 arresti, quando degli yobbo aderenti al National Front, nel corso del Bank Holiday, hanno invaso un raduno di 10.000 scooteristi a Great Yarmouth. La pop star anni ’60 Desmond Dekker è stata coinvolta in una rissa.
Delle teste rasate che aggrediscono uno dei maggiori artisti skinhead reggae in nome della loro appartenenza a un partito di estrema destra: si trattava di una rottura che nessuno skin, politicizzato o meno che fosse, avrebbe potuto ignorare.
Equivoci sul termine “bonehead”
Alla luce del fatto che molti bonehead avevano simpatie naziste, questo termine, con il passare del tempo, è stato usato sempre più frequentemente nell’accezione di “skinhead white power”, pur senza perdere del tutto il suo valore originale. Questa ambiguità ha portato a una serie di fraintendimenti, nei quali è incappato soprattutto chi si è occupato del culto senza conoscerlo a fondo.
Lo scrittore ed artista Stewart Home, ex-skinhead, nel consigliatissimo Cranked Up Really High: Genre Theory & Punk Rock (UK 1995), utilizza costantemente il termine “bonehead” nel suo significato originario, ad esempio definendo in questo modo Roi Pearce, voce del gruppo Oi! The Last Resort, il quale – a suo avviso – si rifaceva al filone più terra terra della sottocultura.
L’autore, soffermandosi sull’Oi!, scrive inoltre che il sottogenere non è del tutto rappresentativo degli skin, visto che costituisce solo una parte del loro patrimonio musicale, e che questo tipo di musica è particolarmente caro ai bonehead, «che non sono né boot boys né grease ma un incrocio tra le due sottoculture».
Nello spiegare l’attaccamento delle teste rasate a questa corrente del punk rock, lo scrittore finisce per fornire un’interessante interpretazione dell’evoluzione da punk a skunk:
Il movimento skinhead delle origini, anche se si scatenava al ritmo del primo Reggae o dei dischi della Tamla Motown, non aveva una propria musica.
Dunque la combinazione di abbigliamento skinhead e musica PUNK fu all’inizio una grande novità, sebbene fosse abbastanza scontato che i Punk ideologici, alla ricerca di una retorica vestiaria che sottolineasse la loro immersione teatrica nella classe operaia, fossero attratti da un look che percepivano come sano, non guastato dalle influenze borghesi.
Ma veniamo agli equivoci indotti dall’ambivalenza del sostantivo “bonehead”. Nel 1996 il libro di Home è stato edito in italiano con il titolo stupido e fuorviante Marci, sporchi e imbecilli – 1976-1996: la rivolta punk non si è mai fermata, che non rende affatto l’idea dei contenuti.
Ebbene, il traduttore – rifacendosi a uno studio sociologico – spiega in nota che il termine “bonehead” corrisponde a ciò che i mass media definiscono “naziskin”, a dispetto del fatto che lo stesso Home, parlando di Roi Pearce, dichiari che il personaggio in questione costituisce la dimostrazione che «non tutti i “patrioti” boneheads sono destinati a trasformarsi in rompiballe razzisti».
Ed è così che per i lettori poco attenti e non al di dentro della sottocultura i Last Resort rischiano di trasformarsi in un gruppo white power! Chissà cosa penserebbero di tutto questo non soltanto Pearce, ma anche il bassista Arthur Kay, che è pure un musicista ska, e il cantante originale Graham Saxby, il quale, come altri membri della band, ha in più occasioni sottolineato la propria estraneità alla politica di estrema destra?
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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2018 e aggiornato il 13 dicembre 2020.
Ciao, per quanto riguarda l’ascolto di musica soul all’interno della prima scena skin venivano seguiti i gruppi noti (temptations ecc) o c’era un serie di gruppi meno conosciuti? Grazie, grande blog
Grazie per i complimenti! Principalmente Motown e Stax, alla quale dedicheremo presto un articolo:)