Il punk e la sua arte
L’arte punk dai Sex Pistols agli Sham 69, passando per gli Angelic Upstarts e i Buzzcocks: ce ne parla Alessandro di Moriarty Graphics.
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Cultura e sottocultura
Nella seconda metà degli anni ‘70, tra Londra e New York, nasce il punk. Non si tratta semplicemente di un genere musicale, in quanto rappresenta una vera e propria rottura generazionale, che prende la forma di nuove percezioni, idee, stili, attitudini e sonorità.
La somma di questi elementi è quanto basta per definire il punk una sottocultura, termine che designa un raggruppamento sociale che sotto certi aspetti si distacca e talvolta si pone in contrasto con la comunità più ampia a cui appartiene.
In questo caso, si tratta di una contrapposizione alla cultura tradizionale e quindi ai codici e alle convenzioni sociali che la definiscono, e non solo, visto che il punk manifesta un distacco altrettanto evidente nei confronti dell’ormai dissolto sogno hippie.
Il punk germoglia come scena culturale, e non solo musicale, utilizzando forme d’espressione che manifestano inquietudine, disagio, malcontento, rabbia e diffidenza verso la cultura dominante e le dinamiche sociali dell’epoca. Prende quindi piede il motto no future, che può significare – di volta in volta – rottura, caos, distruzione, dissacrazione, nichilismo e anarchia.
La sottocultura punk incoraggia l’individualismo e spesso fa propria la logica del DIY (acronimo di Do It Yourself), ovvero dell’autoproduzione, che poi sarà ripresa e in maniera più intransigente e radicale dalla corrente punk più politicizzata guidata dai Crass.
Tuttavia, sin dal primo momento, la creazione di nuovi contenuti e manufatti, così come la rielaborazione e la ricontestualizzazione di quelli già esistenti, sono fondamentali per definire il punk come cultura, in quanto spingono l’individuo a non essere un semplice consumatore, oppure uno spettatore passivo.
Punk, stile e moda
Prima di proseguire, occorre fare una piccola premessa storica: se un tempo le mode si generavano ciclicamente secondo dinamiche che andavano dall’alto verso il basso – ovvero le classi dominanti elaboravano una nuova tendenza, che veniva via via adottata anche dagli strati sociali subalterni – a partire dal secondo dopoguerra si registrano dei profondi mutamenti.
Questi si manifestano da un lato nella parziale inversione delle dinamiche descritte – ovvero le tendenze stilistiche possono nascere in ambito popolare, per poi venire adottate dalla moda ufficiale – e dall’altro dalla nascita delle sottoculture moderne.
I teddy boy prima, i rocker e i mod poi, e quindi gli skinhead e più tardi punk, danno un nuovo significato agli abiti e agli accessori indossati, che identificano la loro appartenenza a raggruppamenti sociali ristretti, che sono a loro volta definiti dall’appartenenza generazionale e talvolta di classe, nonché da idee e atteggiamenti che non sono necessariamente condivisi dal resto della società.
Anche se alcuni interpretano gli atteggiamenti dei primi punk come un semplice tentativo di scioccare, studiato a tavolino dagli studenti degli istituti artistici, bisogna tenere conto del fatto che, sin dal principio, all’interno di quella scena è presente una componente di estrazione working class, che vede il punk come una vera espressione di dissenso.
I punk, nell’intento di prendere le distanze dalla cultura dominante, che li schiaccia ed emargina, decontestualizzano capi di vestiario e accessori ritenuti simboli dell’élite: questi ragazzi decorano, riciclano e riadattano giacche, cravatte e camicie con indole dadaista, riadattandole al proprio look tramite strappi, tagli, borchie, catene, spille da balia, oggetti di varia natura e scritte provocatorie. Questa tendenza sarà poi ripresa e portata a conseguenze più estreme durante la seconda ondata del punk britannico, nota come “UK 82”.
Si registra inoltre la predilezione per capi fascianti, aggressivi e addirittura sadomaso: in sostanza, vengono esposti nella vita quotidiana oggetti e capi d’abbigliamento che – secondo il comune senso del pudore – dovrebbero appartenere unicamente alla sfera intima.
Il risultato finale è un aspetto scioccante, bellicoso, androgino, oscuro, sensuale, profondamente differente dagli stili contemplati dalla cultura ufficiale.
Nascita dell’arte punk
Naturalmente, l’approccio DIY non si limita all’abbigliamento, ma viene spesso esteso alla musica e alle grafiche: copertine di dischi e locandine di concerti sono spesso opera di giovani ragazzi, e non necessariamente di professionisti del settore.
Sono inoltre gli stessi punk a dar vita i propri canali di comunicazione, che – nell’era pre-Internet – sono costituiti principalmente dalle fanzine, la cui realizzazione è facilitata dalla diffusione di ciclostili e macchine fotocopiatrici.
Ci troviamo, quindi, di fronte alla nascita dell’arte punk, che è spesso caratterizzata dall’uso di mezzi a basso costo e dall’impiego di tecniche in parte improvvisate.
Si assiste alla ricerca di un linguaggio visivo che esprima l’interiorità della sottocultura: gli artisti, i grafici e tutti coloro che producono manufatti figurativi, danno vita a immagini forti, scioccanti, ironiche, anticonformiste e dissacratorie, e quindi di rottura con l’esistente.
La fonte d’ispirazione è spesso costituita da avanguardie artistiche, come ad esempio il dadaismo, nato durante la prima guerra mondiale, i cui aderenti miravano da un lato a sbalordire e provocare il pubblico, e dall’altro a colpire con l’ironia e la satira i regimi responsabili degli orrori della guerra.
I dadaisti amavano la spontaneità, che esprimevano tramite tecniche come il collage, il fotomontaggio e altri procedimenti che non richiedevano profonde conoscenze tecniche e accademiche. Il dadaismo è un crogiuolo di idee e di atteggiamenti anarchici e nichilisti, e si caratterizza per l’assenza di un vero e proprio manifesto artistico e politico.
Il punk – soprattutto quello inglese – prende in prestito molti elementi dal dadaismo, tanto che alcuni lo vedono quasi come il figlio – o meglio nipote, per questioni anagrafiche – di quella corrente artistica. I punk, quindi, attraverso le proprie grafiche, cercano di criticare e ridicolizzare il potere e la cultura dominante, così come i dadaisti avevano fatto prima di loro.
Esempi di arte punk: le copertine dei dischi
Passiamo quindi ad esaminare alcuni esempi di arte punk, talvolta realizzati dalle stesse band o dai loro collaboratori, e in altri casi affidati ad artisti che – come l’anarchico Jamie Reid – hanno contribuito enormemente alla definizione dell’estetica punk.
Il più noto lavoro di Reid in ambito punk rock è probabilmente la copertina dell’album Never Mind the Bollocks (1977) dei Sex Pistols.
I suoi collage estremi e diretti caratterizzano inoltre altre grafiche della band, come quelle di God Save the Queen (1977), Pretty Vacant (1977), The Great Rock ‘n’ Roll Swindle (1979), ecc.
Siouxsie and the Banshees, per la copertina del singolo Mittageisen / Love in a Void (1979), utilizzarono invece una porzione di un lavoro già esistente.
Si trattava di un fotomontaggio realizzato nel 1935 dall’artista dadaista berlinese John Heartfield, che raffigurava una famiglia intenta a mangiare degli oggetti metallici. Lo scopo dell’artwork era quello di ridicolizzare una dichiarazione del militare e politico nazista Hermann Göring: «L’acciaio fortifica i regni, il burro e il lardo ingrassano le genti».
Ha intenti sarcastici anche l’artwork di Orgasm Addict (1977), singolo dei Buzzcocks, realizzato dalla designer Linder Sterling. La copertina consiste in un collage ironico ed erotico, raffigurante una donna che al posto della testa ha un ferro da stiro, e in luogo dei capezzoli ha delle bocche sorridenti. Si tratta forse di un riferimento al Cadeau del dadaista statunitense Man Ray.
Le foto che compongono il collage furono ritagliate da una rivista e da un catalogo: si tratta, qundi, di immagini appartenenti alla cultura di massa, che vengono però ricontestualizzate in ottica punk.
Nell’arte punk ritroviamo, quindi, non solo le tecniche del collage e del fotomontaggio, ma anche un altro elemento della poetica dadaista, ovvero l’objet trouvé, termine che designa un oggetto naturale o un manufatto di uso comune, trovato casualmente dall’artista ed esposto come opera d’arte compiuta, oppure come elemento costitutivo di quest’ultima.
Altre tecniche frequenti sono il ready-made e l’assemblage, nonché il cut-up, procedimento che consiste nel sottoporre fonti testuali di diversa provenienza a tecniche di frammentazione e composizione aleatoria, il cui risultato finale è un collage di lettere.
Questa tecnica si ritrova ad esempio nella copertina del The Murder of Liddle Towers (1979) degli Angelic Upstarts – dedicato a un pugile morto nel ’76, mentre era in custodia della polizia – dove le scritte sembrano quasi comporre una lettera minatoria.
Collage e cut-up fanno mostra di sé pure sulla copertina dell’album That’s Life (1978) degli Sham 69: queste tecniche vengono qui spinte all’estremo, dando luogo a un artwork che suggerisce un turbinio di visioni e pensieri.
Altra cosa che appartiene a questo discorso è il ricalcare la grafica shock dei giornali scandalisti, con l’uso di font colorati e immagini forti, come nella grafica del singolo Gary Gilmore’s Eyes / Bored Teenagers (1977) degli Adverts.
In questo caso si nota l’utilizzo di colori pieni e accesi, e inoltre i componenti della band hanno gli occhi coperti, a mo’ di censura, nella maniera adottata da certi giornali scandalistici o di cronaca nera.
Altra importante corrente presente nell’arte punk è il surrealismo, movimento molto esplorato dai grafici della nuova cultura popolare del secondo dopoguerra.
Come i dadaisti, i surrealisti volevano provocare, scandalizzare, alterare o capovolgere la percezione ordinaria del mondo, in modo tale da impressionare l’osservatore. Molti artisti di questa corrente erano apertamente di sinistra e ritenevano la propria arte un contributo a un cambiamento radicale della società.
Nella copertina di Thinkin’ of the USA (1977) degli Eater, vi è una raffigurazione surreale della band, che è sovrastata da una New York disfatta, affiancata da Godzilla e dalla Statua della Libertà, che però ha in mano un hamburger in luogo della fiaccola.
Conclusioni
I punk – così come gli artisti a cui talvolta si affidano – usano immagini d’impatto, irriverenti, sessualmente esplicite, violente, visionarie e oniriche, atte a distorcere e la realtà.
Sono frequenti i disegni in bianco e nero, a matita o a china, così come i collage, i fotomontaggi, le immagini fotocopiate e colorate nello stile di Andy Warhol, e inoltre tutte queste tecniche possono essere mescolate in varie maniere.
L’insieme di tecniche e fonti d’ispirazione viste finora furono utilizzate, come abbiamo visto, non solo dai grafici e dagli artisti di professione, ma anche dai punk di tutto il mondo. Si tratta, quindi, di una grande innovazione, in quanto la produzione artistica non è più riservata a un numero ristretto di individui.
La diffusione, a partire dalla fine degli anni ’70, delle macchine fotocopiatrici contribuì a far nascere ed espandere l’autoproduzione delle grafiche, siano esse destinate alle copertine dei dischi, alle t-shirt o a materiali di altro genere (adesivi, poster, flyer, ecc.).
Al giorno d’oggi si utilizzano mezzi più moderni, soprattutto digitali, che sono spesso alla portata di tutti. Questi permettono sia di creare di oggetti materiali (fanzine, dischi, locandine, ecc.) che di dar vita a nuovi mezzi d’espressione, come ad esempio i siti web, i blog come il Crombie Media e i post che appaiono sui social network.
Attraverso le nuove tecnologie si manifesta, insomma, il vecchio spirito punk, che consiste nel produrre di persona contenuti e manufatti, che permettano di manifestare la propria indole e le proprie idee. Il nostro auspicio è che questa attitudine non soltanto sopravviva, ma torni a espandersi, spingendoci a non essere dei semplici e inerti consumatori.
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L’immagine di copertina del post è di Alessandro Aloe. Questo articolo è stato pubblicato il 28 marzo 2019 e aggiornato 23 novembre 2020.
Molto preciso, interessante l’associazione del punk alla corrente dadaista, concordo che, da un punto di vista artistico e concettuale non dissimila affatto, ma anzi sembra quasi un proseguo di esso in molteplici aspetti
Grazie tantissime, si concordo con lei in toto, la sua affermazione è molto interessante, si può certamente affermare che si tratta in alcuni casi di un proseguimento delle correnti artistiche indicate nell’articolo.