I Clash a Bologna nel 1980
Il concerto dei Clash a Bologna fu un evento di grande rilevanza per la scena punk italiana degli esordi. Ce ne parla Riccardo Santi partendo dal libro “Bologna 1980 – Il concerto dei Clash in Piazza Maggiore nell’anno che cambiò l’Italia”.
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Il concerto dei Clash a Bologna
È recentemente uscito il libro Bologna 1980 – Il concerto dei Clash in Piazza Maggiore nell’anno che cambiò l’Italia (Goodfellas, 2020, 239 pp.), a cura di Ferruccio Quercetti e Oderso Rubini. Si tratta di una raccolta di testimonianze degli spettatori di quel concerto, così come degli organizzatori.
Se credete, però, che il volume parli solo del grande evento che vide i “combat rocker” esibirsi nella piazza più importante del dotto capoluogo emiliano davanti a migliaia di giovani punk e simili, vi sbagliate di grosso.
Infatti, il concerto dei Clash a Bologna fu soltanto uno degli eventi che caratterizzarono il periodo finale di quella fase storica che viene spesso ricordata come “gli anni di piombo”, anche se questa definizione non viene condivisa da tutti quelli che hanno vissuto in prima persona quegli anni di lotta politica, che furono anche anni di estrema creatività.
I giovani, il PCI e la sinistra extraparlamentare
La città delle due torri diventò durante gli anni ’70 una sorta di capitale per musicisti e artisti di ogni genere provenienti da ogni angolo d’Italia, attirati dal DAMS, allora unico corso accademico dove si studiavano arte, cinema e teatro.
Bologna diventò presto una sorta di laboratorio creativo, dove si dava moltissima importanza alla militanza politica. Va detto, però, che anche se tanti di quei giovani avevano idee comuniste o comunque vicine a quell’orientamento, vedevano lo stesso Partito Comunista Italiano – padre-padrone di Bologna – come un vero e proprio nemico, in quanto il partito si era ripiegato su posizioni conservatrici e borghesi ed era ormai lontanissimo dalle richieste e dai bisogni dei giovani che popolavano Bologna.
L’apice di uno scontro già aspro fra PCI e sinistra extraparlamentare ebbe luogo nei tragici fatti dell’11-13 marzo 1977, con l’uccisione del giovane militante Francesco Lorusso durante una manifestazione e l’entrata dei blindati dell’esercito nel pieno centro cittadino per reprimere le proteste.
Significativo fu pure il blitz poliziesco nella sede di Radio Alice, una delle voci simbolo del movimento.
L’accusa a una delle prime radio libere d’Italia era quella di aver fomentato l’insurrezione armata, accusa che si rivelò ben presto falsa, visto che la stazione – il cui motto era «Dare voce a chi non ha voce» – tentava piuttosto di cambiare la società attraverso la creatività e la cultura. Quel che preoccupava davvero le autorità era l’inaspettato successo di pubblico riscosso dalla radio e dalle sue trasmissioni: Radio Alice, insomma, andava fatta tacere, con le buone o con le cattive.
Inutile dire che la repressione del marzo del 1977 fu la goccia che fece traboccare il vaso e segnò la rottura totale tra il PCI felsineo e i giovani. Almeno una parte dei vertici della FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana) si rese pertanto conto che era fondamentale ricucire il rapporto con le nuove generazioni e dare spazio alle idee della suddetta ala creativa.
Ebbe quindi luogo una serie di iniziative organizzate dal Comune, nel corso delle quali si esibirono artisti e musicisti le cui creazioni erano rimaste sino ad allora relegate alle proprie cantine o a piccolissimi locali, e nelle varie rassegne dedicate al cosiddetto “nuovo rock italiano” si esibirono gruppi legati in qualche modo alla neonata scena punk (Skiantos, Gaznevada,ecc…).
La sinistra e i punk a Bologna
In diverse città italiane, i militanti della sinistra extraparlamentare non vedevano di buon occhio i primi giovani “spille e borchie”, che ritenevano fascisti o comunque individui sospetti, sia per il loro rifiuto delle correnti di pensiero allora prevalenti, sia per il loro look, visto che spesso indossavano indumenti neri e in qualche caso esibivano simboli come la svastica, che all’epoca trovava spazio tra i punk italiani per via dell’influenza esercitata da Londra.
A Bologna, invece, quella nuova scena venne accolta positivamente dalla sinistra antagonista, grazie alla mentalità aperta e innovatrice dell’ala creativa, che ne aveva intuito il potenziale eversivo. In quegli ambiti, veniva prestata particolare attenzione ai gruppi di matrice working class, o che comunque rivendicavano una certa appartenenza ideologica, come nel caso della band di Joe Strummer.
I dirigenti della federazione giovanile del PCI decisero quindi di tentare il colpaccio, invitando i Clash a Bologna per esibirsi nella serata finale della rassegna musicale Ritmicittà, programmata per il 1 giugno del 1980 a Piazza Maggiore.
L’occasione era assai ghiotta, dato che dopo lo strappo di tre anni prima il partito cercava di “recuperare punti” con i giovani, portando loro la punk band marxista per eccellenza, per di più senza far pagare alcun biglietto.
La contestazione degli anarco-punk
Naturalmente, la notizia del concerto dei Clash si diffuse a macchia d’olio, e il 1 giugno arrivarono a Bologna punk e creature simili da tutto il paese, per giunta in un periodo in cui le grosse formazioni rock straniere evitavano l’Italia a causa delle autoriduzioni all’ingresso, che allora andavano per la maggiore.
Alcuni, però, avevano capito immediatamente che la mossa del Comune non era affatto disinteressata, sostenendo che «questo concerto è stato fatto per fotterci». Si trattava del collettivo dei punk anarchici bolognesi, che inoltre criticavano pesantemente i Clash perché, a dir loro, i musicisti londinesi facevano i ribelli pubblicando dischi per un’etichetta multinazionale.
Sempre secondo loro, erano piuttosto band come i Crass a rappresentare il vero spirito del punk, incentrato sull’autoproduzione: da qui lo slogan Crass, not Clash.
La contestazione degli anarco-punk bolognesi, che prima del concerto distribuirono volantini che riportavano la loro posizione, ebbe però scarso successo, e in diversi casi i punk accorsi in Piazza Maggiore trattarono Jumpy Velena (RAF Punk) e gli altri contestatori come dei semplici guastafeste.
E finalmente… I Clash!
Finite le contestazioni e terminate le esibizioni delle due band di supporto – che non furono certo accolte con entusiasmo, tanto per usare un eufemismo – non restava che attendere l’inizio del concerto dei Clash.
Quando questi finalmente iniziarono la scaletta, il pubblico notò immediatamente l’assenza del batterista Topper Headon, sostituito da un roadie della band nel corso dei primi quattro o cinque pezzi.
Il prode Headon arrivò infatti in fortissimo ritardo a causa di un non ben precisato incidente di percorso, accaduto durante il viaggio in macchina dalla Francia, dove la formazione aveva tenuto il precedente concerto. I membri dei Clash, quando erano in tour, viaggiavano spesso da soli, il che era talvolta fonte di problemi logistici, come nel caso della data di Bologna.
Fortunatamente, quella sera Headon riuscì comunque a esibirsi, e l’ansia dovuta al suo ritardo procurò anzi un’ulteriore scarica di adrenalina alla band, che suonò in maniera particolarmente energica e coinvolgente di fronte a un pubblico di punk poganti che urlavano a sguarciagola i loro pezzi.
Appendice – Punk nichilisti e anarco-punk contestano il concerto dei Clash a Bologna
Segue uno spezzone del documentario Mamma dammi la benza – Le radici del punk italiano – 1977-1982 (2005) di Angelo Rastelli.
Il segmento contiene dei filmati di repertorio, nonché le testimonianze di Steno (Nabat), che era allora un punk nichilista (maggiori info qui), e di Jumpy (ora Helena Velena), in rappresentanza degli anarco-punk.
Si noti come i testimoni, pur uniti nel contestare l’iniziativa del Comune di Bologna, esprimano punti di vista differenti, anche per quanto riguarda i Clash.
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Tutte le immagini che corredano questo articolo sono tratte dal libro “Bologna 1980 – Il concerto dei Clash in Piazza Maggiore nell’anno che cambiò l’Italia” (Goodfellas, 2020).
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