Original skinhead Paul Thompson

Un’intervista con Paul Thompson: l’epoca skinhead original

Dal Sud Est di Londra una preziosa testimonianza sugli esordi della sottocultura

Lo skinhead original Paul Thompson a Londra
Paul Thompson a Londra, nel 1969 e nel 2015.
🇬🇧 Non-Italian speakers take note! This article about original skinheads is an authorized translation of the following interview, albeit with a different introduction: Swimming in the right pond.

Paul Thompson, skinhead original

Presentiamo, di seguito, un’interessante intervista con Paul Thompson, skinhead original dal 1968 al 1970.

Paul nacque nelle vicinanze di Bristol nel 1950, per poi trasferirsi con la famiglia a Poulton-le-Fylde, vicino Blackpool, quando aveva dieci anni. Nel ‘68, in piena epoca original, i Thompson traslocarono a Londra.

Immerso nella cultura skinhead, Paul Thompson curò la rubrica “Yell!”, che fu ospitata per un breve periodo dall’International Times e che gli fece guadagnare una certa notorietà, tanto che – ricorda con una punta d’imbarazzo – una rivista lo intervistò e intitolò così il pezzo: “Il re degli skinhead”.

La versione originale della seguente conversazione sugli skinhead original è apparsa nell’ottobre del 2016 sul sito Weekly Worker con il titolo “Swimming in the right pond” (“trovarsi nell’ambiente giusto”).

La traduzione ed edizione in italiano è stata autorizzata dall’autore Maciej Zurowski, che ha anche favorito i contatti con Thompson, il quale è stato sentito a più riprese per verificare la corretta interpretazione di alcuni passaggi.

L’intervistato ha inoltre fatto qualche piccola puntualizzazione rispetto all’intervista originale, che abbiamo provveduto a integrare nel testo.

Gli argomenti toccati sono quelli che solitamente destano maggiore curiosità: non soltanto la musica e lo stile, ma anche i contatti con i giovani immigrati indo-occidentali, e soprattutto la politica e il razzismo eventualmente presenti tra i gli skinhead original.

Thompson si sofferma, in particolare, sulle discriminazioni nei confronti dei paki – voce dispregiativa con cui in Inghilterra si designano sia i pachistani che gli altri immigrati dal subcontinente indiano – e sul cosiddetto paki-bashing, termine che indica le aggressioni fisiche ai danni degli asiatici.

Si discute, inoltre, della possibile influenza esercitata dal conservatore Enoch Powell, che nei tardi anni ‘60 condusse una campagna spregiudicata contro l’immigrazione.

Prima di lasciarvi all’intervista – della quale, data la lunghezza, abbiamo evitato di riprodurre le parti meno rilevanti sul piano storico-culturale – vorremmo sottolineare il fatto che Paul Thompson non pretende di presentare la verità assoluta su tutti gli skinhead original, ma anzi ripete in più occasioni che egli parla esclusivamente di ciò che ha visto e vissuto di persona nella zona da lui maggiormente frequentata: il Sud Est di Londra.

Un'intervista con Paul Thompson, skinhead original
Arrivano gli skinhead: ritaglio di giornale dell’epoca. Fonte: George Marshall, Spirit of ’69: A skinhead bible, GB 1991.

L’intervista

Cos’è uno skinhead?

È un qualcosa che esiste, sotto diverse forme imitative, dal 1969, e a proposito del quale ognuno può parlare in virtù della propria esperienza.

Per quanto mi riguarda, si tratta di una cosa molto londinese, esclusiva del periodo che va dal 1968 fino all’incirca la metà del 1970.

Nel 1968, i biker usavano il termine “skinhead” in senso offensivo per designare i mod più duri, non fichetti, che portavano i capelli corti. La parola col tempo perse la sua connotazione negativa e venne infine adottata per descrivere un certo look.

Quando nel 1968 mi trasferii a Londra da Blackpool, usavo ancora il termine “mod”, che i miei amici trovavano sconcertante.

Il nostro aspetto si evolse gradualmente. Quando la stampa iniziò a occuparsi di noi nel 1969, i ragazzi più giovani leggevano le notizie che ci riguardavano e prendevano coscientemente la decisione di diventare skinhead. La differenza d’età tra i due gruppi non andava oltre i cinque anni.

Nel 1970 ho compiuto vent’anni e, per come la vedo io, in quel periodo era già finita. Iniziammo a farci crescere i capelli, e la gente cominciò a chiamarci “suedehead”.

Jimmy Pursey degli Sham 69 una volta ha detto che, nel 1969, la maggior parte dei ragazzi della scuola che frequentava erano skin, e quelli che non lo erano prendevano le botte da loro. Si trattava davvero di una cosa così imponente?

All’epoca andavo già all’università, ma avevo l’impressione che, alla fine del 1969, tutti i ragazzi di Londra stessero diventando skinhead.

Quindi si trattava più di una moda giovanile che di una sottocultura con dei confini ben delimitati?

Per gente come me, si trattava di una moda. Nessuno ha firmato un contratto con cui s’impegnava a prendere parte alla violenza calcistica, al disprezzo per i pachistani, o a fare altre cose comunemente associate alla sottocultura.

Tuttavia, la stampa cominciò ad occuparsi di noi e vennero intervistati alcuni ragazzi a proposito di determinati argomenti. Le dichiarazioni rilasciate rappresentarono, per certi giovani, una specie di guida su come diventare skinhead. Come accade in qualsiasi gruppo giovanile, i ragazzi a volte sono un po’ pecoroni.

Comunque, oltre ad essere una moda, era qualcosa che riempiva le nostre vite. Eri qualcuno, eri identificabile e ti divertivi in compagnia.

Ricordo un documentario televisivo dell’epoca in cui un giovane skinhead diceva: “Quando vedo in strada un grosso gruppo dei nostri mi vengono le lacrime agli occhi”. So perfettamente cosa intendeva, tra noi c’era un forte senso di cameratismo.

Gli skinhead original provenivano esclusivamente dalla classe operaia?

Meno di quanto si dica solitamente. Si trattava di un’ascendenza principalmente operaia per il semplice fatto che gli skinhead andavano forte nei centri urbani.

Nell’università che frequentavo, nel Sud Est di Londra, c’erano un po’ di mod e di skin della piccola borghesia, oltre che della classe lavoratrice.

Ricordo pure di aver visto, in qualche ufficio londinese, dei ragazzi vestiti alla stessa maniera: potremmo definirli “skinhead dal colletto bianco”.

Comunque sì, gli skinhead provenivano soprattutto dalla classe operaia.

Che importanza aveva la musica?

Per me, la musica e i vestiti erano le cose più importanti. Toccai il cielo con un dito quando scoprii un negozio di dischi indo-occidentali a Deptford, a dieci minuti a piedi dalla mia università. I dischi reggae che avevano in vendita erano stati letteralmente sbarcati lo stesso pomeriggio.

Motown

Ascoltavate soltanto i dischi reggae più recenti o anche un po’ di vecchi dischi ska e Motown?

Ascoltavamo un po’ di ska quando eravamo mod, anche se allora eravamo interessati soprattutto al soul. Quando arrivai a Londra, il rocksteady era ancora popolare, ma poco dopo arrivò il reggae, e così quando mi recavo al negozio di Deptford compravo soprattutto dischi di questo genere.

La musica che ascoltavamo dipendeva pure dalle scelte dei DJ. Al Savoy Rooms mettevano gli ultimi singoli della Tamla Motown, ma si ascoltavano anche cose di successo più datate per accontentare il pubblico.

A un certo punto il soul si appesantì e divenne funk. Gli skinhead original apprezzavano questo genere?

Nel 1969, ricordo di aver comprato “Look Ka Py Py”, un singolo 7” proto-funk dei Meters di New Orleans. Per come la vedevo io, quello che facevano loro, ma anche James Brown, era semplicemente seguire il percorso che stava intraprendendo il soul meno ricercato.

In ogni caso, nove mesi più tardi tutta la faccenda skinhead andò in frantumi, e sono sicuro che alcuni siano diventati “funkettari”.

Desmond Dekker
Annuncio pubblicitario: Desmond Dekker al Savoy Rooms. Fonte: G. Marshall, Spirit of ’69, cit.

I concerti erano una parte integrante dell’esperienza skinhead original?

Il concerto più importante a cui assistetti fu quello di Desmond Dekker al Daylight Inn di Petts Wood, lo stesso giorno in cui “Israelites” arrivò primo in classifica. In genere, però, la cultura skinhead era più incentrata sui dischi.

A volte, al Savoy Rooms, c’erano dei gruppi che suonavano dal vivo, ma la gente dopo un po’ si stufava di ascoltarli. Preferivamo i DJ perché potevano mettere i dischi in base alle nostre richieste.

Si dice spesso che gli skinhead smisero di seguire il reggae quando l’influenza rastafari divenne più forte e i testi iniziarono a rivolgersi apertamente al pubblico nero. È vero?

Al contrario, ci disinteressammo al reggae quando diventò troppo commerciale. Per me, un grosso segnale in tal senso fu quando Desmond Dekker smise di cantare in patois.

È vero che il reggae divenne una cosa più mirata ai giovani rasta, ma non ho mai sentito nessuno dire: “Non mi piace più il reggae perché i musicisti sono rastafariani”. Dopo quattro o cinque anni, fu proprio questa caratteristica a renderlo nuovamente interessante. Io stesso ricominciai ad ascoltarlo.

Ci fu una separazione tra giovani bianchi e neri quando vi disinteressaste al reggae?

Ci furono meno posti in cui i due gruppi avevano la possibilità d’incontrarsi. All’apice dell’era skinhead, c’era sempre un grosso gruppo di ragazzi indo-occidentali al Savoy Rooms di Catford, che era il locale del Sud Est di Londra che frequentavamo maggiormente.

Quando ci disinteressammo al reggae, andammo in cerca di altri locali. Che fine avranno fatto quei ragazzi neri? Saranno cresciuti e avranno messo su famiglia? Si saranno fatti crescere i dreadlock e saranno diventati rastafariani? Non saprei, so soltanto che a un certo punto smettemmo d’incontrarci.

In che direzione ti sei evoluto quando la faccenda skinhead è svanita?

Mi sono vestito da “artistoide” per un po’ di tempo e ho riscoperto il modern jazz degli anni ’50 e ’60, ad esempio John Coltrane, ma senza trovare niente che avesse la stessa energia della musica che ascoltavo prima, finché non ha avuto inizio il punk.

Ricominciai ad ascoltare anche il soul. Avevo poco più di vent’anni quando partì la scena northern soul, e inizialmente la cosa m’incuriosì.

Tuttavia, si trattava di gente molto settaria: non apprezzavano la Stax, la Motown e l’Atlantic, perché quei dischi erano troppo conosciuti per i loro gusti. Secondo me, questo significava che non gli piaceva veramente la musica soul.

Sei mai stato al Twisted Wheel di Manchester?

Ci sono stato molto tempo prima che diventasse il cuore del northern soul.

Comunque sia, in epoca mod e skinhead non avevamo modo di ascoltare quella roba sconosciutissima che poi divenne nota come “northern soul”.

Tralasciando la musica, l’influenza indo-occidentale sullo stile e sulla cultura skinhead original fu veramente forte come si dice?

Tanto per dirne una, non conoscevo nessuno che adottasse espressioni linguistiche tipiche della comunità indo-occidentale.

Tra gli skinhead di Lewisham c’erano dei ragazzi indo-occidentali che alternavano il patois alla parlata londinese, a seconda del contesto.

Per quanto riguarda l’abbigliamento, gli skinhead indo-occidentali imitavano ampiamente lo stile skinhead britannico, non era certo il contrario.

Gli altri giovani indo-occidentali che frequentavano il Savoy Rooms – i cosiddetti “rude boy” – seguivano la propria moda, che per certi versi era diversa dalla nostra.

Gli skinhead original erano più violenti di quanto lo fossero i ted e i mod prima di loro?

No, non credo, però erano più numerosi, quindi gli episodi di violenza erano più evidenti.

In ogni caso, nei centri urbani le gang e la violenza giovanile esistevano già da molto tempo prima che nascessero gli skinhead. Lo stesso vale per la violenza calcistica, che in effetti peggiorò dopo la loro scomparsa.

Eppure gli hippie erano spesso vittime della violenza skinhead, giusto?

Episodi del genere avvenivano abbastanza spesso perché la gente ne parlasse.

Detto ciò, ricordo di essere andato a uno di quei concerti gratuiti ad Hyde Park. Qualcuno lanciò una lattina e colpì accidentalmente una donna in testa. Il suo uomo si alzò di scatto e picchiò il ragazzo che l’aveva colpita.

Attenzione: si trattava di un gruppo di hippie che se le davano. Sono cose che capitano, le persone s’incazzano e si aggrediscono.

Le tue idee politiche erano piuttosto insolite per gli standard skinhead dell’epoca.

Sono sempre stato in qualche modo di sinistra, perché ero orgoglioso di mio padre che durante la Seconda Guerra Mondiale si era offerto volontario per paracadutarsi in Jugoslavia, dove fece da operatore radio per un’unità di partigiani titini.

Non mi piacevano i tory. Inoltre m’interessai alla storia della guerra civile spagnola, il che, all’epoca, significava essenzialmente leggere Omaggio alla Catalogna di George Orwell. Quindi divenni una specie di anarco-sindacalista.

Non direi che ero unico, ma ero tra i pochi che s’identificavano apertamente in un pensiero così di sinistra.

Alcuni mod e skinhead che frequentavano l’università erano esposti a questo genere d’idee. La maggior parte di quelli che non frequentavano l’università provenivano da famiglie della classe lavoratrice che tradizionalmente votavano laburista, e loro avevano le stesse simpatie. Altri provenivano da famiglie operaie conservatrici e avevano idee di quel tipo.

In ogni caso, tra noi non si parlava molto di politica. Se all’epoca ce lo avessi chiesto, probabilmente la maggior parte di noi ti avrebbe risposto che non ci piacevano i politici.

Gli skinhead original sottolineano il fatto che gli skin sostenevano i “valori tradizionali”, oltre all’identità di classe. Quel termine è spesso sinonimo di conservatorismo e patriottismo, così come dei cosiddetti “valori della famiglia”.

Per come la vedo io, questo dipende dal fatto che eravamo per la maggior parte ben educati, anche chi proveniva da famiglie operaie povere.

Ci hanno insegnato ad essere educati: “Prima di chiudere la porta, guardati alle spalle e, se sta arrivando qualcuno, tienigliela aperta!”. Non ho mai visto uno skinhead sbattere la porta in faccia a qualcuno.

Puoi vederla così: uno skinhead che picchia una persona fa parlare di sé, mentre uno skinhead che cede il proprio posto sull’autobus non fa notizia.

La cultura e lo stile skinhead non avevano una componente di stampo conservatore che poi ne favorì l’appropriazione da parte della destra?

Potresti aver ragione sul fatto che potesse esserci un piccolo elemento di questo tipo, ma non credo affatto che fosse particolarmente rilevante. Ciò di cui stiamo parlando è qualcosa che è sempre presente nelle famiglie urbane: una forte enfasi sulla famiglia. D’altra parte, non ci piaceva la polizia.

Nessuno di noi era eccessivamente militarista, anche se la gente percepiva il nostro look come un’uniforme. Non andavamo in giro sventolando la Union Jack – cose del genere furono introdotte dai revivalisti dieci anni più tardi – né tantomeno ostentavamo svastiche o altri simboli nazisti, che venivano invece indossati dai greaser.

Credo che il problema che a volte si cerca di rimuovere sia il razzismo nei confronti degli immigrati pachistani. Devi però ricordare che l’intero paese era molto più razzista rispetto ad oggi. Si sentivano continuamente battute razziste, e anche nei programmi televisivi ricorrevano degli stereotipi razziali. Qualunque forma di razzismo ci fosse tra gli skinhead, questi l’avevano ereditata dai genitori.

Nel 1969, un compagno di mia conoscenza si recò ad una manifestazione contro Enoch Powell, e ricorda distintamente degli skinhead che cantavano “Enoch! Enoch!” dall’altra parte del cordone della polizia.

Non ho problemi a credere che possa essere accaduto.

Enoch Powell veicolò – o si ritiene che abbia veicolato – alcune delle preoccupazioni razziali di chi viveva nei centri urbani. Comunque sia, non mi sono mai trovato in mezzo a una folla che acclamava Enoch, e anche per quanto riguarda i miei amici non ho mai sentito niente del genere.

Come ti dicevo, non parlavamo molto di politica, ma immagino che la maggior parte di noi vedesse Powell come un politico come un altro, tranne quelli che provenivano da famiglie un po’ razziste.

Un articolo uscito nel giugno del 1970 su un settimanale tedesco, Der Spiegel, parla di un gruppo di quaranta skinhead che si sarebbe offerto al servizio di Enoch Powell come una sorta di Guardia pretoriana. Se questo fosse vero, implicherebbe una politicizzazione di diversi anni anteriore rispetto a quanto si ritiene comunemente.

Immagino che questo sia potuto succedere. Sapendo com’era fatto Enoch Powell, immagino pure che abbia rifiutato l’offerta.

Paki-bashing
Paki-bashing: ritagli di giornale dell’epoca. Fonte: G. Marshall, Spirit of ’69, cit.

Che mi dici del paki-bashing? Hai mai assistito a episodi del genere?

Sono venuto a conoscenza del paki-bashing tramite i mass media, ma non l’ho mai visto accadere di persona, né ho mai sentito parlare del coinvolgimento di gente che conoscevo.

So che il fenomeno esisteva, e non intendo presentare una versione ripulita dei fatti, tuttavia non credo che il paki-bashing avvenisse così spesso come a volte dicono, e non penso che rappresentasse né il comportamento tipico degli skinhead né un aspetto caratterizzante della cultura skinhead.

Ciò che per noi contava di più erano i vestiti, la musica e il calcio: tutto questo non ci lasciava molto tempo libero per andare in giro a picchiare gente a caso.

Benjamin Bowling, nel suo libro Violent racism: victimisation, policing and social context, scrive che nell’East End di Londra, nel 1970, nell’arco di soli tre mesi circa 150 persone vennero ferite seriamente in seguito ad episodi di paki-bashing. Si tratta, se possibile, di una quantità di crimini d’odio superiore a quella commessa dagli skin white power nel corso degli anni ’80.

Non ho idea di quanti di questi incidenti coinvolgessero degli skinhead. So che all’epoca il National Front era ormai attivo.

Quando mi capitava di vedere gruppi di persone del National Front – il che succedeva piuttosto raramente – non c’erano mai skinhead tra loro. Con questo non voglio dire che degli skinhead o degli ex-skinhead non potessero far parte del National Front, è addirittura possibile che già a quei tempi vi abbiano aderito in molti.

Comunque, non dimenticare che non mi spostavo molto dall’East End, a parte quando andavo a vedere le partite del West Ham. Frequentavo soprattutto il Sud Est di Londra.

Ad ogni modo, con il passare del tempo l’odio per i pachistani fece breccia al punto che le persone si aspettavano quel tipo di atteggiamento anche dai propri conoscenti.

C’era un mio amico, Noel, che proveniva da una famiglia operaia irlandese ed era politicamente a sinistra del Partito Laburista: immagino che oggi verrebbe considerato un sostenitore di Jeremy Corbyn.

Un giorno mi disse, a proposito dei greaser: “Li odiamo ancora più dei paki!”. Io gli risposi: “Ehi, aspetta, Noel! Tu sei di sinistra come me, noi non odiamo i pachistani!”. S’interruppe, ci pensò per un attimo e poi rispose, vergognandosi un po’: “Hai ragione, Paul. Scusa, me ne ero dimenticato!”.

Che ne pensi del documentario The Story of Skinhead? Credi che rappresenti correttamente la scena skinhead original?

È un po’ edulcorato. L’armonia tra i ragazzi bianchi londinesi e i giovani indo-occidentali non era assoluta. In genere, se una ragazza bianca frequentava un nero, poi veniva considerata intoccabile.

Per quanto riguarda gli asiatici, il problema consisteva nel fatto che questi non avevano punti di contatto con i giovani bianchi, quindi tra loro mancava un terreno comune. Detto ciò, nel complesso ho un’opinione piuttosto buona del documentario.

Quando nei tardi anni ’70 apparirono gli skinhead revivalisti, cosa pensasti di loro?

Non molto. Mi limitai a pensare: “Prima le cose non stavano esattamente così, sia per quanto riguarda l’abbigliamento che per quanto attiene all’attitudine”.

Mi parvero belligeranti ex-punk dalla testa rasata che entrarono alla grande nel National Front. Si limitarono a prendere una parte degli aspetti più duri del nostro look e se ne appropriarono. Sentii che c’era una completa disconnessione.

Non credi sia normale che, anche se in peggio, le sottoculture si evolvano e riflettano i propri tempi?

Immagino di sì, ma m’infastidiva il fatto che si definissero skinhead.

Preferisco di gran lunga i revivalisti odierni, che cercano l’autenticità sia nell’abbigliamento che nella musica. Hanno un bell’aspetto, si divertono e fanno uscire allo scoperto original come me per parlare ancora di quei tempi. Credo che questo sia giusto, dopotutto gli skinhead sono uno dei culti giovanili meno documentati.

Come persona di sinistra, cosa pensi dei raggruppamenti skinhead che esplicitano la propria identità politica? Mi riferisco ai redskin, alla RASH e così via.

È vero che all’epoca non eravamo un raggruppamento politico, ma una volta che l’estrema destra si è appropriata di quell’immagine, era inevitabile che venissero fuori gruppi di segno politico opposto.

Lo stile è una cosa senza tempo, piace alle persone, però queste non vogliono necessariamente essere accomunate alle gang organizzate di destra. Le mie idee politiche non sono cambiate molto rispetto ad allora, sono soltanto più documentate.

Comunque sia, non sento il bisogno di mettere in relazione le mie idee con un look o un raggruppamento in particolare.

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Pubblicato da

Flavio Frezza

Mi occupo di sottoculture (skinhead, mod, punk, ecc.) e dei generi musicali a queste connessi. Gestisco il blog Crombie Media, canto nei Razzapparte e sono il manager degli Unborn. Nel 2017 Hellnation Libri ha pubblicato il mio libro Italia Skins, e in seguito la stessa casa editrice ha dato alle stampe le edizioni italiane di Spirit of '69, Skinhead Nation e Skin, curate dal sottoscritto. Se vuoi saperne di più, leggi il seguente articolo: Un’intervista con Flavio Frezza: gli skinhead italiani e il libro “Italia Skins”.

15 commenti su “Un’intervista con Paul Thompson: l’epoca skinhead original”

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